La Grande Dea, Signora della Vita, Fonte di fecondità e fertilità, guaritrice e conoscitrice delle erbe, Madre dell’umanità e di tutte le creature, Signora della Morte, Signora dei passaggi e delle trasformazioni, Signora del cosmo e dei ritmi naturali, Sovrana dei cicli, Fonte del Sapere e della Saggezza, protettrice di popoli e città. Costei fu venerata dalle genti mediterranee, per le quali le epifanie della Dea erano una realtà viva nelle loro esistenze. Ella è il Nume che in ogni cosa è presente e si rivela, è ciclica e mutando forma rinnova se stessa. Costei, Signora dai molti volti, parla alle donne come una viva presenza interiore, rinnovando la sua forza e insegnando profonde conoscenze sull’identità femminile.

Agli albori della vita religiosa mediterranea, la Dea è originariamente androgina e realizza in sé la compiutezza fisica che gli esseri umani non possiedono, poiché Ella racchiude entrambi gli attributi differenziali del maschio e della femmina, essendo immortale e per sempre compiuta e soddisfatta in se stessa: non partorita, auto-generante, fuori dalle nozze (non si accoppia per produrre), finita.

Questa concezione del Divino riflette sul piano ideologico la struttura sociale delle comunità umane delle origini, che vedevano la donna come eterna fonte di vita, inesauribile nel suo dare, in un periodo in cui è attestata l’importanza della femmina e dei modelli matrilineari di trasmissione della cultura. Come ci ricorda Pestalozza, quello mediterraneo fu un matriarcato di intuizione, comprensione e prestigio muliebri più che di autorità e ciò vuol dire che le donne partecipavano a pieno diritto al potere. Tuttavia, quest’ultimo era concepito come “capacità di creare e mantenere la vita”, quindi potere che si realizza: era potere “di” e non potere “su”, il potere di “illuminare e trasformare la coscienza e con essa la realtà”. Da queste parole di Riane Eisler è facile intuire come le società dei primordi fossero, se non formalmente, intimamente ginecocratiche e che questo si sia tradotto nell’elaborazione di una concezione del Divino in cui esso assume primariamente i tratti femminili, concretandosi nell’immagine di una Potnia. Da una siffatta società sorse una divinità femminile, possente e immortale, autonoma e predominante, proprio come la donna dei mediterranei, a sottolineare il mistero della maternità. La Eisler ha coniato un temine nuovo per definire una struttura sociale non di dominio, come si ritiene dovesse essere quella diffusa nel Paleolitico tra i popoli mediterranei: gilania. Il modello sociale gilanico si basava sul mutuo supporto di donne e uomini, i quali mantenevano sfere di attività e competenze distinte all’interno di un sistema di alleanze, collaborazioni, partnership e condivisione del cibo raccolto. Tali società erano pacifiche e civili, legate alla luna e alla sua ciclicità. Oltre alla ceramica e alla tessitura, era in uso presso le popolazioni arcaiche europee un alfabeto, le cui tracce ci sono pervenute nei lineari A e B di Creta.

Nell’area geografica molto vasta che si estende dall’Europa Occidentale e Settentrionale all’India, dal bacino del Mediterraneo all’Egitto e al Medioriente, sono stati rinvenuti numerosissimi reperti archeologici risalenti al Paleolitico (40.000-10.000 a.C.), i quali mostrano così tante analogie da aver fatto teorizzare all’archeologa Marija Gimbutas un’unità culturale e sociale del culto e delle cosmogonie dei popoli dell’epoca. Ricorrono rappresentazioni degli organi genitali femminili incavate nelle rocce delle caverne, insieme ai simboli associati al principio femminino: triangoli, zig-zag, meandri, spirali. Le prime statuine votive che rappresentano il corpo della donna risalgono a circa il 25.000-20.000 a.C. e sono state chiamate “Veneri paleolitiche”. Queste statuette sono in argilla e presentano una demarcazione dei tratti sessuali, seni e natiche molto abbondanti, ventre gravido. Originariamente esse erano dipinte di ocra rossa, il colore associato al sangue mestruale e venivano poste a contatto con la terra (hanno gambe rastremate), spesso sotto o in prossimità delle abitazioni. Le ceramiche cultuali e le sculture del Neolitico rappresentano una produzione artistica e religiosa che si pone in netta continuità per forme e simbologie affini a queste. Marija Gimbutas intuì che il messaggio e l’ideologia soggiacente a questi reperti fossero il segno di una specifica concezione religiosa del mondo, diffusa in tutta l’area cosiddetta “mediterranea”. Ne “Il linguaggio della Dea”, la studiosa lituana parla di un comune alfabeto metafisico che potrebbe essere considerato una sorta di metalinguaggio tramite il quale sono stati tramandati dei significati comuni: un sistema di idee coeso e persistente che vedeva nella medesima Dea la figura centrale del culto e delle cosmogonie del tempo. Le sue opere sono importanti pietre miliari nella riscoperta di una storia antica e, purtroppo, ancora spesso misconosciuta e negata, che lei stessa definì “una sceneggiatura iconografata della religione della Grande Dea dell’Europa antica”. Questi reperti archeologici ci trasmettono ancor oggi un profondo senso di celebrazione della vita e di connessione cosmica e parlano a ogni donna con un linguaggio che va oltre la razionalità mentale, per arrivare nel profondo dell’animo, risvegliando una sapienza sopita.

Anticamente gli esseri umani possedevano una di connessione profonda col creato e la Natura, nei quali scorgevano una presenza divina in ogni manifestazione. Il senso del sacro pervadeva l’intera esistenza e ogni aspetto naturale, vegetale e animale, era espressione di una forza numinosa che era presente in ogni cosa manifesta come esternazione del Principio Divino. Le donne e il loro corpo erano percepiti come incarnazione vivente di tale essenza, primariamente femminile. Il mistero della gravidanza e del sangue mestruale, datore di vita, era percepito come un’espressione della sacralità della donna e del suo corpo, il quale era riconosciuto come un tramite tra il piano umano e quello della Divinità. Come la Terra genera e nutre la vita, così le donne incarnavano il principio generativo ed erano depositarie del sacro arcano della perpetuazione dell’esistenza. La Divinità era percepita come intimamente femminile nelle sue manifestazioni e pensata, in uno dei suoi attributi, come Madre, che si era autogenerata e aveva dato origine al cosmo e all’essere umano.

Il corpo femminile era riprodotto a scopo celebrativo nelle parti che più sottolineavano la forza generativa: la vulva, i seni da cui sgorga il latte, il ventre con il suo frutto. Dominante è l’associazione all’acqua come primo elemento di vita, cui si rifacevano i motivi ondulati, le linee a zig zag, le spirali serpentine, mentre le rotondità e la sinuosità delle forme rimandavano alla sacra fecondità della donna e della terra. Le alture e i rigonfiamenti del suolo erano considerati metafore del ventre gravido, così come le grotte ricordavano l’utero della Madre Terra. L’antica Dea è la Fonte del nutrimento e della vita, Una, creatrice di tutte le cose, inesauribile, immutabile, eterna. Emana più che compiere un’azione, genera semplicemente perché è (principio generativo puro). Ella ai primordi non possiede un nome, poiché è la manifestazione delle forze vitali che danno origine e forma al mondo, è il principio che regge e regola l’universo, la danza spiraliforme che richiama i moti cosmici nella loro armonia. Essendo collegata alla terra, la Dea è Colei che genera dal suo corpo vegetale le piante e le erbe, delle quali conosce le proprietà medicamentose e grazie a cui può dare la vita oppure la morte: è la Potnia Phytòn (Signora delle Piante) e Potnia Pharmakòn (Signora delle Medicine).

Le erano associati numerosi animali, i quali personificavano i suoi variegati attributi. Ad esempio, la mucca a incarnare il mistero della nascita o il toro, il cui cranio ricorreva nelle raffigurazioni a causa della somiglianza con l’utero, oppure l’orsa, animale ctonio dal forte istinto materno, collegato alla morte e rigenerazione per la capacità di andare in letargo (una morte simbolica) e risvegliarsi in primavera. Altro importante animale frequentemente associato alla Dea era il serpente, simbolo dell’energia rigeneratrice a motivo della muta periodica della sua pelle, esempio di rinnovamento e trasformazione. Questo animale è intimamente legato alla luna, Signora della ciclicità, dei ritmi, delle maree e dell’utero femminile, Colei che governa il susseguirsi del ciclo vita/morte/rinascita. Come il serpente,  essa cambia il proprio aspetto, muta volto continuamente e si trasforma nel passaggio dalla fine di una fase a quella successiva. Il serpente è inoltre associato alla ciclicità del mestruo, il sangue di vita che infonde il potere di generare e di mutare insieme alla luna, risvegliando una nuova consapevolezza. Anche l’ape regina, con la sua capacità di deporre centinaia di uova al giorno, era associata alla Dea come simbolo di fecondità e rigenerazione e le api stesse erano paragonate a Lei nel suo aspetto di ordinatrice e regolatrice del cosmo e della vita umana.  Gli uccelli, i messaggeri della Divinità, erano spesso collegati alla Dea. Ad esempio, la colomba, simbolo dell’amore, oppure, nell’età del Bronzo e del Ferro, l’avvoltoio, associato alla morte e alla resurrezione o, ancora, la civetta e il corvo. La stessa Dea veniva rappresentata come Dea Uccello, associata alle acque primordiali. Ella è la Signora degli Animali Selvaggi, la Potnia Theron, sovrana incontrastata della Natura, dinnanzi alla quale le fiere e le belve feroci appaiono mansuete. Frequentissime sono le rappresentazioni della Divinità come donna alata che tiene tra le mani animali come leoni, lupi, felini, i quali si dimostrano docili e soggiogati, a dimostrazione del suo potere e del suo dominio sulle forze naturali e sull’uomo. Dopo la diffusione dell’agricoltura, la Dea fu collegata alla Terra e ai suoi cicli di nascita-germinazione-raccolto-morte-rinascita e associata all’ariete, dal cui vello si ricavavano il filato per la sacra arte della tessitura. Oppure fu rappresentata come fertile e prolifica scrofa. La Dea è energia e sviluppo, triangolo, occhio, Albero della Vita.

A garantire l’equilibrio e la continuazione della creazione stava la capacità umana di relazionarsi in modo armonico alle leggi della Natura, alla Dea come espressione della vita vegetale e animale. Ella è la terra, l’humus fertile e fecondo, ma possiede anche un aspetto celeste e uno ctonio, esprimendo l’energia rigeneratrice e trasformatrice. La celebrazione della vita non escludeva la considerazione per la morte, la quale tuttavia non era concepita come fine, bensì come un passaggio verso una nuova forma di esistenza. La morte, quindi, era vista come una porta su un diverso stato dell’essere, l’apertura verso un’altra vita. Così, la Dea era anche Regina dell’oscurità e Sovrana del regno dei morti, dei quali presiedeva la rinascita. Sono state rinvenute delle tombe sotterranee di forma tonda che possiedono un cunicolo di collegamento tra la camera mortuaria e la terra. In tal modo, i defunti tornavano al grembo oscuro della Madre, dal quale erano provenuti e al quale avevano fatto ritorno per poter essere rigenerati e nascere a nuova vita. La luna spesso era posta sul capo della Dea, indicando la fertilità, la ciclicità e la rigenerazione, ricordando inoltre il legame con i cicli della vegetazione e del corpo delle donne. Il latte, il sangue e l’acqua erano strettamente connessi al femminile, così come il due e il doppio indicavano la capacità di dare vita unendo le dualità. Inoltre, gli ibridi nelle raffigurazioni delle Dee sono riconducibili a una visione del mondo in cui era percepito un senso di totalità e una connessione profonda con l’universo. Si riteneva che lo Spirito Divino permeasse ogni espressione di vita e tutte le creature, in una rete di interconnessione cosmica. La Dea era pertanto concepita come onnicomprensiva. Si riteneva che il principio femminile fosse in grado di instaurare una comunicazione con le forze della Natura e del cosmo e che le donne fossero le depositarie di questa energia, rappresentanti della Divinità nel mondo. Il campo della spiritualità era, dunque, loro prerogativa ed esse ricoprivano il ruolo di sacerdotesse, guaritrici, sciamane, le guide spirituali. Layne Redmond, musicista e ricercatrice, afferma che le donne fungevano da tecniche del sacro. Loro strumenti erano la danza, il tamburo e l’amore. Suonatrice di tamburo, nel corso di una catalogazione di immagini provenienti dall’area del Mediterraneo antico, si rese conto che nella maggioranza delle rappresentazioni rituali era sempre presente il tamburo e che esso era quasi sempre suonato da donne, sacerdotesse o Dee.

Il tamburo è uno dei primi strumenti costruiti dall’uomo e ha una rilevanza fondamentale nella storia religiosa dell’umanità poiché fu da impiegato a scopi rituali e terapeutici fin dai primordi. Esso ricorda il battito del nostro cuore, collegato al pulsare dell’universo nel suo ritmo primordiale, al quale può connetterci. Le vibrazioni del tamburo hanno un effetto profondo sulla psiche e sul corpo, risvegliano le energie sopite e permettono di sintonizzarci al battito universale. Il suo suono ha proprietà terapeutiche in quanto armonizza la frequenza ondulatoria del nostro stesso vibrare, penetra nelle membra, smuove i liquidi corporei, abbassa le frequenze cerebrali, attiva la visione, fa riaffiorare memorie sepolte. E’ il suono del battito della Terra grazie a cui possiamo sintonizzarci sulla sua frequenza. Le sacerdotesse un tempo suonavano il tamburo in ogni fase di iniziazione e nei momenti di passaggio. La conoscenza dei diversi ritmi costituiva un patrimonio sapienziale tramandato da donna a donna: vi erano ritmiche in grado di influire sulle doglie del parto, agevolando le contrazioni e favorendo le nascite; ritmiche che regolavano il flusso del sangue mestruale; ritmiche che aiutavano il corpo a sciogliere le tensioni e la mente a calmarsi, in modo da procurare l’entrata in uno stato di trance e l’abbandono alle danze estatiche. Alcuni ritmi sostenevano l’energia femminile nei riti sessuali e nelle unioni sacre. Altri ritmi erano in grado di risvegliare le energie della terra e della vegetazione, stimolando la fertilità e la crescita. Inoltre, si conosceva il modo di suonare il tamburo che, nelle cerimonie funebri, poteva aiutare il distacco dell’Anima dal corpo e il successivo viaggio nell’Oltretomba dei defunti, i quali in tal modo venivano guidati e sostenuti nel passaggio.

L’amore e la sessualità possono essere considerati un altro mezzo di unione col Divino. Le sacerdotesse un tempo avevano il ruolo di iniziatrici ai Misteri del Femminile e per questa ragione compivano dei rituali in cui l’unione sessuale era concepita nell’ottica di un rituale sacro durante il quale si poteva entrare in contatto con la Divinità. Nel loro ruolo di maestre e iniziatrici, le sacerdotesse incarnavano la Dea, divenendo Lei stessa nell’unione sessuale sacra.

Alla luce delle scoperte archeologiche del secolo scorso, possiamo constatare che la storia dell’antica area mediterranea è più remota di quanto precedentemente ritenuto, tanto che sarebbe opportuno spostare la linea del tempo fino a 20.000/30.000 anni fa. Questo recupero della memoria ci fa comprendere che i nostri 4000-5000 anni di storia attestata sono in realtà la documentazione della storia del patriarcato, laddove la preistoria si delinea nelle sue caratteristiche socio-culturali e antropologiche in maniera più definita. Da quel tempo atavico giunge sino a noi l’immagine di una società ginocentrica, che solo in un’epoca relativamente recente fu soppiantata da un sistema sociale e di pensiero organizzato secondo un modello maschile e guerriero. Come riporta Marija Gimbutas, intorno al 5500 a.C. l’antica Europa fu invasa da popolazioni indoeuropee di cui non si conosce esattamente il luogo di origine (probabilmente il Mar Nero) e che la studiosa lituana ha chiamato “Kurgan”, identificandoli con una cultura guerriera dell’età del bronzo. Costoro erano portatori di valori molto diversi da quelli degli antichi popoli pre-indoeuropei, in quanto possedevano una società gerarchica, patriarcale e guerriera, la quale era in netto contrasto con i valori di pace e condivisione dei mediterranei, che vennero facilmente sopraffatti. I Kurgan si affermarono come élite militare, imponendo la loro struttura sociale e la loro religione, incentrata sulla figura di un Dio.

Luciana Percovich afferma a tal proposito che la storia di questo Dio, la quale nella sua evoluzione finale porterà all’ideazione della figura di un Dio Padre Unico Creatore Trascendente, sin dai primordi si intrecciò strettamente con quella della Dea. A ben vedere, Egli nasce dal ventre della Dea, Colei che all’inizio regnava sola e incontrastata col Suo potere di auto-generarsi, ne diviene figlio e poi paredro/amante.

La Percovich spiega come gli antichi simboli legati alla Dea abbiano subito un capovolgimento della forma e delle attribuzioni. Il triangolo sacro originariamente era raffigurato con la punta rivolta verso il basso a simboleggiare il triangolo pubico, considerato il luogo di origine della vita. La trinità venne modellata sulla triplice rappresentazione della Dea, come fanciulla, madre/amante e vecchia saggia, che regolava il trascorrere ciclico del tempo e della vita. Alla Dea venne attribuita la nascita del figlio come Dio della Vegetazione, il quale si sacrifica e viene alla luce sul piano della materia, facendo parte del ciclo generativo di piante e animali. Con il volto di Dio della Vegetazione, egli trae potere e legittimità dalla sua divina madre-consorte fino a quando non la farà cadere dal trono a suo personale vantaggio, prendendone il posto e rimuovendone la memoria. Il Figlio ruba così il posto della Madre. Con la cacciata della Dea e la sua conseguente rimozione dalle memorie e dalle coscienze umane, si passa da una concezione del mondo incentrata sulla sacralità e il senso di connessione universale a una visione in cui si legittima la violenza, il dominio del maschio sulla femmina e sulla terra, l’assenza di empatia per gli esseri viventi e la negazione della sacralità immanente a tutto il creato. Il sentimento collettivo di spiritualità insito nel rispetto delle leggi naturali e degli esseri viventi, la libertà di espressione della propria forma di contatto col Divino sono abbandonati e sostituiti con nuove ideologie, legate a una logica di violenza e sfruttamento. Nasce la religione istituzionalizzata, che non lascia spazio alle donne come guide spirituali, sacerdotesse e terapeute, ma anzi le relega in posizione subalterna, come corpi da possedere.

Nel corso del tempo, parallelamente ai mutamenti sociali, dal mondo pre-ellenico e dalla civiltà micenea all’avvento dei Dori e della cultura patriarcale, la figura originaria della Potnia fu via via parcellizzata e resa subalterna, sebbene non fu mai possibile cancellarne completamente le tracce e le influenze poiché troppo grandi erano il suo potere e la sua eco nell’immaginario religioso dei popoli assoggettati dagli invasori. Si cercò invece di limitarne la irrefrenabile libertà congenita alla natura delle genti mediterranee, tramutando le figure dei paredri in sposi consapevoli, di fronte alle consorti divine, della loro autorità coniugale. La Potnia venne così assoggettata attraverso il rito nuziale, nello stesso modo in cui, come ci dice Graves, i re guerrieri elleni costrinsero al matrimonio le sacerdotesse della Dea per legittimare l’occupazione delle loro terre. Allo stesso tempo, i miti elaborati in seno alle società ginecocratiche furono riadattati in modo da imporre il predominio della divinità maschile, col risultato di alterare, deformare e distorcere i tratti e le figure primigenie, tanto che oggi è possibile cogliere le tracce dell’antica Dea nelle periferie, dove ha continuato a parlare nelle favole, nelle leggende, nei culti popolari. L’antico ordine non fu cancellato completamente, piuttosto sparì dalla superficie; si nascose prima sotto i templi e poi sotto le chiese, tra le pieghe delle ideologie e delle religioni dominanti, nei significati occultati, nei simboli antichi, tra le righe delle storie ufficiali e ai confini delle civiltà. Così, l’immagine delle donne subì un simile destino ed esse, come sottolinea Momolina Marconi, si ridussero a due soli ruoli: quello di fattrice o di etera. Tuttavia, dietro la figura delle Madonne (soprattutto quelle nere) e delle fate, nei culti popolari, nelle narrazioni folkloriche è ancora possibile rintracciare il filo rosso che ci lega a quell’antico passato dal quale recuperare le radici femminili della nostra storia e della nostra identità. il sostrato mediterraneo rivendica adesso la sua voce, con cui parlare della forma e dell’essenza originaria della Dea, per coglierne la presenza, per comprendere il passato e recuperare il femminile del Divino.

 

 Bibliografia di riferimento e per approfondire

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